domenica 19 febbraio 2023

Estratto dal mio romanzo "Uccidere"

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17 Febbraio, mercoledì


Conosco Matteo da quindici anni ormai e non mi ha mai delusa. È uno di quelli che rimangono costantemente coerenti, per tutta la vita, alla loro incoerenza. È sempre stato così Matteo…dal liceo! È un bambino di trent’anni “troppo” per ogni situazione: troppo affascinante per sposarsi, troppo intelligente per studiare, troppo dolce per non essere ferito quasi ogni giorno, troppo perspicace per trovarsi uno di quegli impieghi da milioni all’anno, fama e tanti amici opportunisti(anche quelli “all’anno”). Matteo è sempre stato troppo per tutto. Anche per me. Pure a scuola era così: lui è troppo certo delle sue qualità e della sua intelligenza che sa di riuscire a fare ogni cosa al mondo…ma forse così è troppo facile. Lui e Vasco, in fondo, l’hanno sempre cercata quella “Vita spericolata”…Oppure Matteo ha solo paura di riuscire e dimostrare a tutti quelli che gli danno addosso che lui è davvero capace di volare in alto, dove loro non sono mai stati e non arriveranno mai e magari non sanno neanche che si può arrivare così in alto! Matteo sì, forse ha paura di ottenere quello che può troppo facilmente avere. Se l’ottenesse, verrebbe risucchiato da quel meccanismo che odia: diventerebbe un adulto, non sarebbe più un bambino e solo i bambini hanno il suo entusiasmo, la sua dolcezza. Soltanto i bambini lottano per ciò che vogliono. Solo i bambini sorridono con l’anima. Se Matteo crescesse avrebbe paura di quel mondo di adulti come, d’altronde, ce l’hanno tutti i bambini. Anch’io ho paura. Ma per me è diverso…io ho paura che Matteo cresca e ogni volta che devo rivederlo sto attenta a leggere i suoi occhi, ad abbracciare il suo sorriso ingenuo uguale a quello che aveva la mattina in classe, uguale a quello che vide sua madre la prima volta che lo strinse a sé quando, per la prima volta, Matteo illuminò il suo pezzetto di universo con la sua luce strana. Non lo vedo spesso. In quindici anni ci saremmo incontrati non più di venti volte: lui è lontano per quel suo cavolo di lavoro che adora, io ho i miei casini…però non mi fido di nessuno come mi fido di lui. Ho la certezza che in qualunque ora del giorno o della notte posso chiamarlo, chiedergli di raggiungermi e vedermelo arrivare dopo un po’, anche se stiamo distanti migliaia di chilometri. Beh, certo, magari arriverebbe in ritardo…anche in questo resta coerente alla sua incoerenza! Ecco: forse dopo due ore, ma se ho bisogno di lui Matteo arriva con la sua camminata strana e quello sguardo un po’ mortificato accompagnato da un incerto sorriso che ti regala sempre quando si aspetta un rimprovero. Me lo immaginavo proprio così al suo arrivo, questa mattina. Avevo bisogno del suo sorriso come il cappuccino ne aveva del caffè. Già. Sapevo che sarebbe arrivato con quell’espressione, la stessa dell’ultima volta che ci eravamo visti, ormai due anni fa: la stessa di sempre. La mia. Stavolta però mi ero fatta furba: non volevo aspettarlo per ore in condizioni…tremende! Incontrare Matteo è sempre incredibile: chi è troppo come lui è anche giusto che si faccia desiderare. L’avevo aspettato per centinaia di interminabili minuti: sotto il sole di ferragosto, la pioggia, la neve…ovunque! Così, stavolta, gli avevo detto che lo avrei aspettato dentro. Nella nostra solita caffetteria. E infatti ero là. Al solito posto, all’angolo, davanti alla vetrata. Dicono che in alcuni casi il tempo condizioni l’umore. Forse stavolta ero io a condizionarlo: il cielo piangeva disperato. Alla mia quarta cioccolata, Matteo è arrivato. È entrato con il suo passo particolare e mi ha cercato con lo sguardo. Mi ha intenerita con la sua faccia “mortificata”, quel suo gesto di arruffarsi i troppi capelli(che fa sempre quando è imbarazzato). E, così, non ha avuto bisogno di chiedermi scusa per il ritardo. Io e lui parliamo per ore con gli occhi negli occhi. In silenzio. E in silenzio stamattina mi ha dato un bacio. Si è tolto il giaccone e ha assaporato piano piano la cioccolata. Con una mano stringeva la tazza e con l’altra stringeva la mia. Ogni tanto si fregava le mani per il freddo, ma uno come Matteo non è mai freddo. La sua mano era calda. Nella mia. Era un po’ assonnato. Però il suo sguardo non era quello di sempre, non era in coma perché la notte, quella prima come tutte le altre, chissà dove diavolo l’aveva passata. Matteo era triste. Magari già sapeva quello che dovevo chiedergli. Forse lo sapeva dalla sera prima, da quando lo avevo chiamato al cellulare, o forse lo sapeva da quel pomeriggio d’agosto di due anni fa quando ero dovuta scappare e avevo dovuto lasciarlo sotto la palma con il broncio. Non mi chiedeva niente. Mi guardava e capiva. Dopo poco ha deciso per me, come sempre e, venendo dietro di me, ha scostato la sedia e mi ha aiutata ad indossare il cappotto. Poi si è messo il suo di giaccone. Matteo ha pagato le mie quattro cioccolate e siamo usciti dalla nostra caffetteria. Nella pioggia.

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