Altre letture

Dal mio Romanzo "Dove vivo mi fa schifo" 

Quello che nella morte non muore


Non mi piace la morte, non la sopporto, fa schifo!!!E ci metto un’infinità a toccarne gli stanchi residui, quegli stupidi oggetti inconsapevoli di stravolgerti la mente. Non ti resta niente…non ci resta niente…qualche immagine, due o tre movimenti di “quella” persona bloccati nella memoria …e fa male, così male! Resti questo, qualunque cosa hai fatto, giusta o sbagliata, buono o cattivo che tu sia stato: l’immagine annacquata che il fotografo riporta alla luce nella camera oscura e a poco a poco prende forma. Ma chi muore la forma la perde e non resta niente. Per questo corro, ottimizzo il tempo, ho la smania di fare perché i minuti scappano e devo acchiappare tutto quello che posso e prima possibile. Così almeno avrò fatto qualcosa. Avrò goduto di tutto quello che potevo afferrare. E te lo ricorderai dove sarai. Lo ricorderai…? Dove sarai?

Ma che gliene frega agli altri, loro continuano la loro vita.

Ho sempre tenuto il dolore per me. Nessuno può curarti, qualcuno ti può fare per un po’ da controfigura, tu puoi contare sul fatto che è lì, però…chi riesce a far passare lo spasmo? Tu solamente. È il solito discorso che ci fanno “quelli bravi”: “…la risposta è dentro di te…ascoltala!” Già, pare facile, brutto stronzo, ma cosa ascolto se urlo talmente tanto sangue che per me lo scoppio di una bomba ormai è un sibilo? Eppure è così. E fa rabbia ma è così. Gli spaccheresti volentieri la faccia a chi te lo dice, ma è vero che solo tu puoi decidere se rialzarti o meno.

Allora…tutti avanti! Qualche piantarello davanti a una cassa da morto accuratamente scelta fra le frasi che già puzzano dello sporco di eredità, rimpianti, rimorsi diligentemente in fila e poi tutto passa. Presto.

No cazzo! Non è così. Per alcuni non passa. E si ammucchia dentro, si deposita nel fondo e incancrenisce e fai finta di non vederlo. Ma lo vedi. Io lo vedo. Lo so che se inizio a piangere non smetto. E non piango solo per me. Piango per tutti quelli che sono morti: materialmente o meno. Piango per tutti quelli che mi hanno abbandonata e per i momenti che non vivremo più insieme anche se continuiamo comunque a vivere entrambi. Distanti.

Mi trattengo. Razionalizzo il pianto perché non devo sprecare il tempo ma ottimizzarlo e ho paura davvero di non finirla più di piangere quando inizio. Così morirei piangendo.

È un dolore troppo straziante che gioca a domino con le tue viscere. Piango per tutti quelli che stanno male e per tutti quelli che se ne fottono perché loro piangono spesso e a comando e senza che il sangue gli vomiti dentro.

E nessuno può aiutarti: a fare cosa poi? Devi bertelo da solo il tuo dolore. Così forse per un po’ passerà. Starà zitto. Ma è sempre là.

Per questo ci ho messo una settimana a piangere per mia nonna che è morta, per questo i miei sogni piangono per l’altra che se n’è andata dalla mia vita ma continua a vivere.

Non posso permettere che qualcuno mi veda piangere. Io sono solo il “giullare”, io devo ridere se no soffro il doppio: per me e per loro. Devo ridere per dare forza agli altri ma soprattutto a me, perché comunque se ne fottono tutti. Sguardi di compassione, paroline melense…Non so se agli altri fa bene vedere chi soffre per condividerne il dolore o per godere del fatto che non sono i soli a provarlo. Boh, non lo so. Ma non gliela do la soddisfazione. Preferisco barcollare e non cadere che cappottare a terra e dover essere aiutata a rialzarmi da una mano sudicia. Ridere, ridere, ridere. E correre, correre, correre. Fare, fare il più possibile e non pensare. Ma poi non so agire in tempo perché ho una dannata paura di legarmi alle cose, alle situazioni, alle persone che poi muoiono tutte, sia che finiscano in una bara di legno che in quella ripugnante dei ricordi: e quindi a che serve andare a fondo nella vita! Ma allora a che serve…viverla?

E allora c’è questo: piango per la morte degli altri e per la mia, che è continua. Ogni tanto si stacca un pezzetto che non riavrò mai più. Ma in fondo…chi se ne frega? Basta non guardare, tapparsi il naso per la puzza di cadavere che ti veste e andare avanti.

Però poi muori tu, nonna, e se anche da anni non ci vedevamo e tu, non so se coscientemente o meno, avevi tagliato da un pezzo i rapporti mentali con il mondo, e certo eri da sempre impenetrabile e a volte glacialmente distante,io dopo sette giorni vedo una tua foto per pochi secondi. Io che credevo di averla già superata. Tocco il liscio del tuo orologio e torno a sentirmi naufragare nel mio vuoto. Incarcerata nel mio carcere. Non so liberarmi dalle catene e preferisco l’abbraccio delle manette a quello di un corpo, perché soltanto quello di un corpo può ferirmi davvero. Ma soffro. E non so andare avanti. Fuggo dalle persone perché soffro già appena le conosco. Perché appena le conosco so già che se ne andranno. E allora che senso ha legarsi a loro?
















Dal mio romanzo "A. I. D. S. "

(...)

Vivevo da un anno con Billy e Marco: mi avevano affittato una stanza (per dirla tutta me la facevano pagare una vera sciocchezza) e Billy mi aveva pure trovato un lavoro come cameriera nella tavola-calda sotto casa, ma continuava a ripetermi che dovevo cercarmi qualcos'altro, che per il momento andava bene, ma che avrei potuto fare di più, “decisamente di più”.

Billy sapeva proprio tutto di me ed io di lui.


Mi piaceva il suo ragazzo: simpatico, dinamico … un tipo eccezionalmente introvabile.

Era un peccato che a casa non ci stesse mai: era sempre in giro per il mondo, correva ora dietro a questo e ora dietro a quell'altro pezzo d'antiquariato per soddisfare tutti i suoi tiratissimi ed esclusivi clienti e per fare ingrassare ancora di più quell'antipatico e unto del suo capo. Lui e Billy spesso litigavano per questo: Billy gli rimproverava di non farsi affatto rispettare, di non avere le palle per avviare una sua attività, di correre a comando, anche a notte fonda, se lo chiamavano per mandarlo nella lontanissima città di turno. Marco non gli rispondeva granché, non tante spiegazioni, si faceva mogio, cupo cupo proprio come se avessero colpito con una forza disumana il suo unico punto debole. Restava in silenzio. Poi sbatteva la porta e partiva verso l'asta di turno, verso la sua raffinatissima caccia.

Marco non era un debole e questo lo sapeva anche Billy. Era solo una delle poche persone leali che ci sono rimaste sull'intera superficie della terra. Aveva una grande riconoscenza per il suo capo perché gli aveva dato la possibilità di fare ciò che amava di più e, così, non se la sentiva di fargli le scarpe anche se ormai era lui il negoziatore più in gamba e l'intenditore più preparato della sua galleria d'arte.

  • Cazzo! ! ! Se ne accorgerà mai che lo stanno sfruttando?


Billy farfugliava sempre queste stesse parole dopo che Marco aveva sbattuto la porta e le ripeteva di continuo, centinaia di volte, quasi come se avesse fatto un voto e se le avesse ripetute mille volte il suo desiderio si sarebbe avverato...

Billy era così: passionale, istintivo, stava sempre a preoccuparsi per gli altri e, a sé stesso, ci pensava di straforo, magari tra una partita di tennis e l'altra o dopo una delle sue riunioni alla “Sky”. Anche lui, come Marco, era preso tantissimo dal suo lavoro e forse per questo tante volte se la prendeva perché gli altri suoi colleghi pensavano solo ai soldi e non al modo in cui svolgevano il loro mestiere. Billy però, contrariamente a Marco, la dirigeva quella stratosferica società e dimostrava così che c'è una ridottissima probabilità che chi lavora con l'anima possa avere anche un riscontro economico notevole. Nel suo lavoro, infatti, era imbattibile: un procuratore dal talento innato, riusciva a mettere in sintonia i gusti dei suoi capricciosi attori o cantanti, con le inflessibili esigenze di pubblicitari, produttori, registi e chi più ne ha più ne metta. Un grande uomo d'affari. Niente poteva corromperlo se non la certezza che quello che stava facendo era il meglio, il massimo che potesse dare. E allora … chi lo dice che quel mondo è totalmente stronzo?

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Dal mio romanzo "Carissimo padre", Premio Speciale Tabula Fati

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Una volta Sara era tornata a casa da scuola. Era ancora alle elementari. Ricorda che aveva trovato a casa i nonni ed era stata contenta ma anche sorpresa perché loro abitavano lontano e si erano lasciati solo il giorno prima. Cosa stava succedendo? Sara non lo sapeva ancora.

Avevano tutti delle facce strane, parlavano a bassa voce. Confabulavano…una festa? La bimba ci sperava. Più il tempo passava e più le facce si facevano inquiete, preoccupate. All’ora di mettersi a tavola per pranzare, ecco suo padre: il suo volto era scuro ed era negativamente sorpreso di vedersi in casa quegli ospiti inattesi. La piccola vide la mamma allontanarsi con il padre forse per spiegargli il perché di quelle visite. Sara aveva cominciato a mangiare. Il brodo le scendeva giù a fatica. Ruppe quel silenzio impaurito un boato del padre proveniente dall’altra stanza. Suo padre urlava come faceva spesso quand’era nervoso e Sara lo sapeva che da un po’ di tempo suo padre era sempre nervoso. Era arrabbiato. Con chi? Con lei?

Quel giorno, stranamente, sua madre non cercò di calmarlo come faceva di solito quando c’erano ospiti e voleva evitare anche agli altri i monologhi ad alta sonorità del marito. La madre di Sara piangeva. La bambina aveva paura perché la madre non le parlava ma piangeva soltanto. I nonni cercavano di tenerla lontano dalla madre che, le spiegavano, era semplicemente stanca. Sara guardava tutto e non capiva e poi chiudeva con un sorriso le sue riflessioni di bambina dentro di sé.

Quel pomeriggio suo nonno, e non sua madre, la aiutò a fare i compiti: doveva svolgere un tema sulla vendemmia. Ancora oggi se lo ricorda molto bene.

Per tanti altri giorni i nonni restarono a casa sua. Il nonno le spiegò che tutti i pomeriggi la mamma e suo padre andavano a fare una lunga passeggiata.

Ma non era vero.

Sara lo sapeva cos’era successo e lo capiva che tutti i pomeriggi i genitori andavano dall’analista, “il dottore dei cervelli in tilt”, lo chiamava di nascosto lei nel suo diario.

La mamma di Sara piangeva sempre.

Spesso il padre di Sara si aggirava per casa con l’elenco del telefono. Sara gli chiedeva chi chiamasse e lui rispondeva che voleva andare a lavorare via, lontano, all’estero, perché era stanco di lei e di sua madre.

-E quant’é distante l’estero papà?-

-È lontanissimo, è troppo distante, voglio andarmene…in Germania!-

A quelle parole Sara ricorda di essersi messa a piangere e di essersi stretta forte alla gamba del padre e, lui, per tutta risposta, l’aveva guardata di sfuggita con un sorriso beffardo.

Sara l’ha sempre odiata la Germania. Anche se suo padre non c’è mai andato.

La mamma di Sara continuava a piangere e…per questo suo padre voleva andarsene?

Il padre di Sara era sempre lo stesso.

Quando passò un po’ di tempo, la madre di sua madre se ne tornò a casa sua perché non sapeva come rendersi utile, perché diceva che le continue lacrime della figlia le facevano venire il mal di testa.

E poi, un pomeriggio, la mamma di Sara aveva smesso di piangere ed era tornata ad aiutarla a fare i compiti. Ogni pomeriggio.

Di quel terribile momento della sua vita Sara non ne parlò più. Con nessuno. Non disse a nessuno quanto si era sentita abbandonata, inutile, angosciata. Se lo chiuse dentro a doppia mandata con un sorriso.

Certo, quel tema sulla vendemmia non se lo scorda ancora: il suo primo brutto voto.

Una cosa non se la spiegò: quel dottore dei cervelli aveva guarito la mamma che era tornata come prima e…allora? Perché suo padre non l’aveva curato?

Adesso che è grande Sara sa rispondersi che un dottore può guarire ma non certo fare miracoli.

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Estratto dal mio romanzo "Uccidere"

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-Io Matteo l’ho conosciuto all' Inferno”, no, non quello “vero”, magari...! Commissà, secondo lei quello vero è più marcio e affollato di quel fottuto Night Club? Mah... Non ne so molto di 'sto Matteo Di Giorgio, stava là quasi tutte le notti... Lui mi ha presentato Roberta: non c'è che dire...una gran figa! E in tanti anni di “onesta carriera” nessuno mi ha mai commissionato un lavoro con tanta... “eleganza” e precisione come lei: pareva che avesse studiato tutto da anni e pareva n'angelo ferma ferma su quello sgabello, con quelle gambe lunghe lunghe accavallate. Me la sarei bevuta come 'na Coca Cola e sarebbe stato bello morì soffocato in mezzo a tutti quei capelli. Batteva sul bancone certe unghie che parevano artigli: sapeva bene chi ero e cosa voleva. Voleva me. Io non lo sapevo che voleva lei da me. La voce ubriaca, ma l'alito non puzzava manco un po'. Certo le cose non sono proprio mai come sembrano... Non era così glaciale come il suo completino voleva far credere. Gli occhi spersi chissà dove, le mani bagnate, giocherellava con quel maledetto bracciale, un bracciale pesante che luccicava e ti cecava pure dentro a quel buco buio. Mia sorella ne aveva uno così da piccola; quando giocavamo a nascondino, io la trovavo sempre: pure se lei si nascondeva bene, la luce di quel bracciale non ci riusciva mai.





Dal mio romanzo "Fatalmente"

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È lo stesso rumore che fa una pallina da tennis quando cade per terra: tam, tam, poi più niente. Ha incontrato il tappeto. Non resta niente: né rimbalzi, né rumori. È questo stesso non-rumore che senti dentro quando ti trovi in posti in cui sei stato miliardi di volte, però poi arriva una volta, quella, quella volta lì sarà l'ultima. E tutto si azzittisce sopra il rumore. Basta. Ci si è detti tutto.

Capita anche con le persone. Soprattutto con le persone. Non sapresti mai spiegarlo ma lo capisci che ogni cosa improvvisamente non ha più il sapore che aveva solo due minuti prima e ora se ne resta congelata come in un lento e irripetibile fermo-immagine. E non vi rivedrete mai più. Mai più nello stesso modo.

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Dal mio ultimo romanzo "La Vedova"

GRIGIO E BASTA

In questi giorni su Facebook gira un post che dice:

Ti racconto una storia... alla fine lei ce la fa!”

Ecco... mi piacerebbe dirvi che alla fine ce l'ho fatta: ho un lavoro appagante e ben retribuito, tantissimi amici con cui spassarmela, una famiglia che mi sta vicino e mi incoraggia, un uomo meraviglioso che mi da tutto ma proprio Tutto quello che desidero ma... per quanto, specie ultimamente, parli spesso di questa mia fase della vita come, addirittura, di una “Ricostruzione Post- Bellica”, non posso certo dire di avercela fatta.

Sì, perché per un lieto fine di tutto rispetto, in linea di massima, le cose devono tornare a posto, ogni cosa deve magicamente trovare una sua nuova e meravigliosa collocazione ma, per dirla tutta, io ho sempre trovato idioti quei finali mielosi e perfetti sia di un film che di un libro. Certo, se finisce tutto bene pensi:

Che palle, che noia....”;

e se finisce male ( il libro oppure il film intendo) dici:

Che cazzo! Mi sono sorbito ore di lettura o di visione per questa schifezza di finale tristissimo???”

Allora ho sempre preferito la sospensione, quei finali cioè che ognuno di noi può riempire di quello che vuole e che ritiene migliore per quel suo stato d'animo del momento e poi... chissà? Un po' come dice Vasco Rossi che a volte lascia delle parole aperte, delle frasi sospese nelle sue strepitose canzoni che sembrano parlare di ognuno di noi a seconda di come le vogliamo farcire. È anche per questo che ho sempre amato i puntini di sospensione e ne parlavo proprio qualche settimana fa, ahimè, con un altro “qualcuno” che ha deciso di fare a meno di me (ma questa è un'altra storia, col finale che vi pare pure questa). Insomma: io avevo paura di fargli una domanda con il punto interrogativo perché non volevo disturbarlo ma, dato che fino ad allora mi aveva sempre scritto lui i messaggi per primo, avendo paura di un rifiuto o di dargli noia, gli scrivo:

Buongiorno, che fai...”

E lui secco come sempre:

È una domanda?”

Sì: troppo indiscreta?”

Ci sono i puntini di sospensione, non il punto interrogativo. La punteggiatura è importante!”

Il che, detto ad una che ha due lauree in Lettere, o giù di lì, oltre che offensivo è sciocco. Per cui rispondo:

I puntini di sospensione creano aria, libertà di rispondere o meno, respiro, non sono invadenti e perentori come il punto interrogativo e per sfortuna sono scarsamente utilizzati nel mondo della scrittura e dell'interpunzione,” (ne parlavo spesso all'università con un mio amico che amava anche lui scrivere e chissà ora che fa, credo che sia giornalista, bravo...).

Ma “lui”, il “qualcuno ormai fuori dalla mia vita” è arrabbiato, sempre, con me o con il mondo? Non lo saprò mai, non ci sentiamo più e non capisce il mio uso dei puntini di sospensione o non lo vuole capire oppure si diverte semplicemente a trovare in me sempre qualcosa che non va perché non gli piaccio davvero o, forse, perché riesco sempre a farmi trattare male dalla gente per il motivo che, come dice Claudia, siamo nate con la luna nera o, magari, come dice quello sempre incazzato con me, io faccio ripetutamente la vittima, mentre dovrei masticare i suoi insulti e zitta... boh, non so.

Certo, questa storia di chi nasce con la “Stella nera”, e non la “Luna nera” per la precisione, è interessante. Vi spiego. Ognuno di noi nasce con un destino, una stella per intenderci e, se questa è nera, beh... potete fare la classica cosa che vi dicono i genitori che non esistono più, quelli cioè che sanno educare, ovvero “sbattervi per terra”, potete essere gentili con tutti, buoni, disponibili, impegnatissimi e appassionati in tutto quello che fate ma risulterete, puntualmente, l'esatto opposto di ogni cacchio di aggettivo che ho appena usato, capite?

Ho provato ad essere una collega leale e instancabile: sono stata tacciata di manipolazione delle menti altrui e di scarso impegno.

Sono stata un'amica sempre presente, tollerando i ritardi e le sparizioni degli altri perché costantemente più impegnati di me e per una volta che non ho potuto esserci io, per le stesse persone, sono “morta”. Magari...

Ho dato il massimo della passione ai miei fidanzati e a mio marito e gli altri sono fuggiti, mio marito è morto per un infarto che mia suocera dice che gli ho procurato io a furia di farlo lavorare o inquietare...

Ho provato ad essere una figlia e una sorella presente ma non invadente, ma sono sempre quella assente e maleducata mentre gli altri sono sempre i migliori.

Che dirvi? Magari hanno semplicemente ragione loro, è anche questione di numeri e io sono davvero maleducata, stronza, incompetente eccetera eccetera se lo dicono in tanti ma... io sto sempre male per loro, cerco di fare il possibile: tanto vale farla davvero la stronza perché probabilmente non riesco ad essere altro e cancellare quegli stupidi sensi di colpa che, in ogni caso, non servono a nessuno. Soprattutto a me.

Ecco sì, sto mettendo sui mattoni della ricostruzione, un po' di sano egoismo come lo chiama la mia ginecologa “spaccamondo” (dalla quale, tra l'altro, sono anni che non torno ma non lo ritengo utile perché che senso ha andare dai medici? Ho mandato Marco a fare esami e visite cardiache a pochi giorni dal suo infarto e ogni responso era positivo... quindi a che servono i medici???)

Sì, sono diventata egoista, un po' diciamo, faccio quello che voglio pensando prima al mio benessere e poi a quello degli altri che, in fondo, se non stai bene tu non fai star bene nemmeno loro e sono diventata fatalista: non ho paura di morire, di salire sulla ruota panoramica e pensare che si sganci mentre sono su su: l'ho fatto e non avevo nessuna ansia, fighissimo! Non ho paura dell'aereo e delle sue turbolenze: l'altro mese ho fatto il primo viaggio dopo tanti anni proprio per Halloween, una specie di “esorcizzazione privata” e durante le turbolenze in aereo non ho avuto nessun timore. Se è destino...

Certo, l'unica grande paura che ho è di stare male, fisicamente e non solo, soprattutto e di dovere continuare a scontare la mia pena qui sulla terra che per me è L'Inferno avvolta nella mia coltre di grigio dove, ormai, le cose si stanno ricostruendo sì, ma ci sono solo doveri, obblighi, le cose piacevoli (un caffè, lo shopping...) le faccio da sola e ci sto pure bene ma ci sono pochi colori e vorrei più risate, divertimento, passione... e se la mia punizione fosse questa? Marcire nel nulla, nel vuoto e nel ripetitivo di giorni soli, senza amore, divertimento, passione...? Che vita sarebbe?

Sto provando a pensare di cambiare città, magari lì riuscirei a trovare nuovi amici: qui sono tutti sposati, con prole, sono uscita da parecchi giri e non riesco a rientrare in nessuno per tanti motivi e poi questa città è così triste e priva di eventi, cultura...

Sto provando ad uscire da sola e a non abbassare sempre sguardo e difese quando c'è qualcuno che mi piace ma, come avrete capito, ultimamente con quello lì dei puntini di sospensione mi è andata male pure se ci ho provato... magari anche lì ho dato troppo e probabilmente il segreto è andare piano... ma che posso fare se non ci riesco e se il mio cuore batte (davvero, non è una metafora) più velocemente di quello degli altri?

Sì, mi spaventa il grigio, ho paura di essere diventata il Grinch, non mi emoziono più per Natale (che poi che Natale è con la guerra alle porte e tutti i problemi della ripresa post Covid e bla bla bla...?!?); non piango più per un film commovente e, per la verità non piango più. Lo confessavo l'altro giorno ad una mia amica:

Mi sto preoccupando. Non mi escono più le lacrime a fiumi come prima. Mi sarò bevuta l'anima o avrò finito le lacrime?”

  • Forse - ha saggiamente risposto lei - si cresce e le cose che ci sono successe sembrano così più forti di quello che accade ora che non si sente più lo stimolo per piangere molto...-

Quindi, come avrete capito, questo non è un ultimo capitolo con lieto fine, è pieno di “sto provando”, “sto ricostruendo” e non lo so se ce la farò come la tipa del post di Facebook di cui vi parlavo all'inizio.

Che poi, ad essere pignoli, “lieto fine” è un ossimoro perché quando finisce qualcosa, qualsiasi cosa, io personalmente ho sempre un po' di nostalgia e tristezza.

E, allora, diciamo che fino qui c'è il grigio: un lavoro a metà (sono sempre una costosissima e difficilissima partita iva...), una famiglia in cui non sono mai stata la preferita, non sono la migliore amica e nemmeno la donna pazzamente amata da qualcuno ma... chissà... appena smetterò di scrivere queste ultime parole...





Dal mio romanzo "Quando gli angeli volano all'in giù"

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La Principessa di Cristallo sapeva di non dover piangere perché le sue lacrime sarebbero state certo anch'esse di cristallo e le avrebbero pertanto serrato gli occhi impedendole di vedere, impedendole di guardare...cosa? -Non devo piangere- si ripeteva la delicata Principessa, -Non devo piangere o non potrò più vedere...cosa? La principessa se ne stette lì immobile a pensare tanto tempo, tutto il tempo di cristallo che aveva a disposizione, che cosa avrebbe rimpianto, che cosa sarebbe mancato ai suoi occhi: le solite colline di cristallo? I più che noti palazzi di cristallo? Le strade vacillanti? Le piogge dirompenti o il sole che come la pioggia aveva sempre un effetto distruttivo in quel regno? O forse...le sarebbero mancati i gelidi abitanti del Regno di Cristallo con i loro cuori rigidi e le loro parole pungenti? Le sarebbero mancati...? 

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Dal mio romanzo "Dove vivo mi fa schifo"

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Psicologia...ipocrisia!


Pazza sì, sono pazza e allora? Preferisco stare di qua, con i pazzi, nelle nostre cliniche ormai chiuse da tempo. E me ne vanto persino, se stare di là vuol dire stare con “voi” uomini e donne che schiacciate in tutti i modi i piedi a chiunque vi intralci la strada con la maschera, però, di giustizieri della bontà per essere definiti “normali”, che stendete la normalità a baluardo delle vostre menti benpensanti tutte prese a cullare il proprio buonismo dall’anima marcia e a fuggire la diversità sempre e comunque, non sapendo che anormale, diversa è pure la genialità e voi, invece, preferite la banale normalità perché vi omologa di più alla massa apatica e freneticamente stupida! Ma sì, continuate pure a strangolare i vostri istinti: in fondo l’ho sempre pensato che il mondo sia diviso fra quelli come noi e quelli come voi. E quelli come noi sono pochi superstiti sofferenti però, se non altro, la sera dopo esserci leccati le pugnalate che ci regalate, ci sentiamo puliti. Noi.

La vera forma di sanità mentale è la follia”: chi la diceva questa frase? Non lo so, non ricordo, ma io la ripeto da diverso tempo e, allora…non è che in fondo è pure mia?

Ci ho pensato spesso ad andare in analisi per risolvere i circuiti della mia intricata materia grigia. Perché IO riconosco di averli. Ma in fondo Jung o Freud sono morti e, resuscitandoli e mettendoli a lavorare “come pazzi” su di me: pensate che si possa arrivare a risolvere una sola delle mie lambade mentali? Io dico di no…

Però penso pure che per risolvere i problemi è necessario ritrovarne le origini, come con quelle schifose macchie spaparanzate(è un classico!) sui pantaloni nuovi nuovi: prima era un bel paio di pantaloni e quello era un risvolto lindo e pinto(pure firmato “Dolce & Gabbata”…) e poi, improvvisamente lì, proprio lì: la sudicia macchia. Il problema. E a quel punto ti chiedi: perché? Chi è stato a sporcare il mio risvolto che solo tre micro-secondi fa era immacolato? Pomodoro? Olio? Inchiostro? Qual è stata la causa? Ecco, io volevo e dovevo scovare quell’ “olio”, il “pomodoro” che aveva macchiato la mia vita lasciandola a imputridire nella sospensione prolungata degli atti, in quello che definirei l’antagonista acerrimo del “carpe diem”: mi si concederà uno “scarpe diem”? E passi.

Nella sfrenata ricerca delle cause del mio male, mi è pure balenato in testa il pensiero di iscrivermi a Psicologia: per auto-analizzarmi, no? Quale pensiero più inutile e demente! Eccoli lì, tutti in fila, gli aspiranti psicologi, a intasarti la vita e la bile in segreterie troppo strette per contenerli tutti, a scalpitarti davanti con gli occhi a spillo in biblioteche indignate di definirsi tali se a popolarli ci sono loro. Donne (o, meglio, aspiranti tali…) e uomini( più “aspiranti” che altro) oberati da un piano di studi appesantito da microgrammi di difficilissimi test a crocette( eh, beh, certo, perché la crocetta è comunque l’impegnativo segno che identifica gli analfabeti…!). E, allora, le crocette piantatevele per terra e zappatela pure un po’, visto che vi ci trovate, così la smettete di stare lì tutti compiti e concentrati a disquisire , nei vostri esami, di quali siano i nomi e gli effetti delle pippate! Un consiglio a voi studenti colorati, sfattoni prigionieri del vostro cliché “sono studente di psicologia e quindi devo vestirmi da troia o come un tossico inciampato nelle tendine di un bagno anni ’60 e travolto dalla fodera del divano”: andate a fare i vostri festini! Sì, lì siete bravi: se avessimo bisogno di fumo e di perversione verremmo da voi, cari amici. Ma i libri, i posti-studio: lasciamoli a chi ha imparato almeno all’asilo a tenere in mano una matita e sa, almeno dal primo anno di liceo, che “Dante” non è una discoteca del centro dove “ve la danno buona”, ma il nome dell’Alighieri, sapete…lo scrittore della Divina Commedia? Non vi dice niente?Paradiso, Purgatorio, Inferno…? No, voi ci tirate noi nell’inferno dei vostri movimenti assurdi e indecisi( e poi sareste voi gli psicologi…?) e imparate a usare le “t” al posto delle “d” prima di concludere che l’unico modo per essere colti consiste nel pagare i bollettini universitari e nel compilare iscrizioni flagellate dalla scolorina e pascolare con il bongos (che non sapete nemmeno suonare…!) in giro per il campus!

Gli “psicologi” hanno tolto tutto lo spazio e la vetusta e colta facoltà di lettere è stata ridimensionata e calpestata perché ci sono loro. Non anche, ma solo loro. E, allora, a parte gli scherzi e con il massimo della sincerità: su almeno un centinaio di iscritti a psicologia che conosco ce ne sono un paio degni della qualifica di studenti. Ancora, con tutta la simpatia del mondo…ma siamo onesti: la repulsione è per un sistema che illude con il miraggio di un corso di laurea che non insegna e non dà nulla se non il rinforzo libero del numero dei disoccupati più inutili e inoccupati.

È ovvio che, a questo punto, dovevo tornarci da sola ai primordi della mia inettitudine e solo lo scavo dei ricordi poteva spingermi a farlo. 



Estratto dal mio romanzo "Carissimo padre", Premio Tabula Fati

 (...)

Sara non ha molti ricordi concreti di quando aveva pochi anni, ricorda vagamente un’atmosfera tranquilla e felice e alcune immagini, flash di giornate nere, di quel nero denso che colora le notti più invernali. Si chiede perché i ricordi da scordare siano quelli che si ricordano per più tempo e in modo più preciso e pensa che forse la felicità non sarebbe tale se non fosse quel magico qualcosa che altera l’andamento uguale, normale, di giorni monotoni che rincorrono altri giorni cupi.

E quel giorno Sara non può dimenticarlo, non ci riesce a mandarlo via a calci anche se i calci che gli dà continuamente sono forti, arrabbiati. Allora torna a vedere sua madre in quella mattina di più di vent’anni fa, con quel suo vestito rosso e il fascino particolare che d’estate risplendeva sul suo viso e lungo tutto il suo corpo abbronzato. La vede entrare in quel negozio di giocattoli dai colori accattivanti e vivacissimi come Sara, la osserva mentre le sorride per invitarla a scegliere il suo regalo di compleanno e la guarda mentre se ne sta alla cassa un po’ dubbiosa perché la sua piccola ha chiesto come regalo uno strano barattolo di bolle di sapone più grande di lei. Ma Sara, ricorda, si ostinava a chiedere quello e quel regalo solamente e con gli occhi sfavillanti implorava la madre e cercava di convincerla dicendole che con l’"acchiappabolle" avrebbe potuto catturare bolle coloratissime e talmente grandi che avrebbero potuto sollevare in aria tutte e due.

Sara si ricorda quant’era contenta per aver ottenuto il suo regalo. Lo trascinava a fatica lungo il viale verso casa. Ogni tanto, però, si fermava sotto il sole di luglio per asciugarsi il sudore e, magari, per tranquillizzare un po’ i suoi brutti presentimenti.

Sara ricorda la faccia del padre al loro ritorno perché lui non sorrideva: non era felice che la sua bambina compisse gli anni? Turbato si aggirava per casa e Sara non sapeva perché fosse agitato ma ricorda il pranzo silenzioso e poi, all’improvviso, le voci dei suoi genitori che si alzano, le sopracciglia del padre che si inarcano, la sua bocca che si spalanca e le mani…le braccia di entrambi che si agitano e si scontrano rumorosamente e ripetutamente. Ricorda molto bene il gelo profondo che la ferì in quel momento di quell’estate torrida, ricorda di non essersi potuta muovere perché non era riuscita a farlo per la paura.

Quello strappo sul bel vestito rosso della mamma non se lo scorderà più, purtroppo.

Tutte le volte che lo vedrà, il vestito rosso, anche tanti anni dopo, lei lo tornerà a sentire dentro quello strappo che, però, non si vede più. Non lo vedono gli altri. Lo vede sua madre che l’ha ricucito più per sua figlia che per se stessa.

Sara ricorda che quel pomeriggio era andata in giardino a giocare con l’"acchiappabolle". Le bolle non erano di tutti i colori. L’unico colore era il grigio. E non erano tanto grandi da riuscire a sollevarla. Non riuscivano nemmeno a sollevare via l’espressione cattiva di suo padre. E il perché Sara non lo sapeva.







UCCIDERE



(Sceneggiatura)












DISTRETTO DI POLIZIA

INTERNO NOTTE

Il giovane Stuart se ne sta abbandonato su una sedia e parla con voce sommessa, lo sguardo fisso a terra. Il commissario lo ascolta, lo scruta, fatica a restare fermo.



STUART


Ogni santo giorno ognuno di noi uccide “qualcuno”…uccidiamo chi ci cerca fottendocene allegramente, uccidiamo gli amici facendo solo quello che ci pare e piace, uccidiamo la famiglia sbattendoci dietro le porte, uccidiamo la nostra donna con le catene e poi ce ne andiamo al bar a ucciderci gli ideali strappando un bell’assegno, uccidiamo la nostra pelle col bisturi, uccidiamo i sogni col valium, le emozioni col contegno, uccidiamo la libertà obbedendo agli altri, ci uccidiamo da soli…



COMMISSARIO


Ma insomma Stuart! Smetti di dire cazzate! Vuoi rispondere? L’hai uccisa tu Roberta Abbiati? Perché?



STUART


Ah commissario! Vede? Lei sbaglia…non capisce…le cose non sono mai come sembrano…nessuno può uccidere una come Roberta, nemmeno io.


COMMISSARIO


Cosa significa “una come Roberta”? La vuoi smettere di parlare, parlare, e non dire niente di minimamente comprensibile? È da due fottutissime ore che va avanti questo interrogatorio e non hai risposto ad una sola domanda! Ti piace tanto prenderci per il culo? E poi…cazzo! Non ci vuole tanto: per l’ultima volta…o è sì o è no…saprai dire almeno un anoressico “sì” o un “no”? Eh? Lo sai: tutte le prove sono contro di te…è evidente che sei stato tu…vuoi confessare prima di compromettere ancora di più la tua posizione?



STUART


Non le sembra divertente commissa’?



COMMISSARIO


Ma cosa diavolo potrebbe esserlo in questo momento…?!



STUART


-Beh, per esempio lei che è più incazzato di quel fottuto cielo là fuori, e questa stanza…cazzo! Pare un poliziesco che danno alla tv! L'ufficio buio, illuminato solo da quella lampada rotta puntata su di me, lo sbirro nell’angolo alle prese con un’arcaica macchina da scrivere che non si aspetta altro dalla vita che la mia confessione per scriverla e smontare, un altro sbirro sulla porta che mi guarda con disprezzo perché è pulito, lui... Non le pare? E poi lei…non si vede come la brutta copia del tenente Colombo, con quel cappotto unto, lo sguardo chiuso, i capelli stressati? Forse è il fumo che le fa quell’effetto, eh commissa’? Avrà fumato almeno quattro pacchetti in due ore…roba da pazzi!


COMMISSARIO


Eh no! Qui sei tu il pazzo!!Vabbè, vabbè, è meglio se stiamo calmi. Farei bene a dire: “se sto calmo”. Riprendiamo dall’inizio. Mi siedo qui. Dunque Stuart, ecco la tua domanda: tu conosci Matteo Di Giorgio? Come? Adesso non dici più niente? Ti è andata via pure la parlantina idiota? Non fai più il filosofo? E allora leggi. Toh! Leggi!


Un'incerta voce femminile, in

sottofondo, legge:


17 Febbraio, mercoledì


Conosco Matteo da quindici anni ormai e non mi ha mai delusa. È uno di quelli che rimangono costantemente coerenti, per tutta la vita, alla loro incoerenza. È sempre stato così Matteo…dal liceo! È un bambino di trent’anni “troppo” per ogni situazione:troppo affascinante per sposarsi, troppo intelligente per studiare, troppo dolce per non essere ferito quasi ogni giorno, troppo perspicace per trovarsi uno di quegli impieghi da milioni all’anno, fama e tanti amici opportunisti(anche quelli “all’anno”). Matteo è sempre stato troppo per tutto. Anche per me. Pure a scuola era così: lui è troppo certo delle sue qualità e della sua intelligenza che sa di riuscire a fare ogni cosa al mondo…ma forse così è troppo facile. Lui e Vasco, in fondo, l’hanno sempre cercata quella “Vita spericolata”…Oppure Matteo ha solo paura di riuscire e dimostrare a tutti quelli che gli danno addosso che lui è davvero capace di volare in alto, dove loro non sono mai stati e non arriveranno mai e magari non sanno neanche che si può arrivare così in alto! Matteo sì, forse ha paura di ottenere quello che può troppo facilmente avere. Se l’ottenesse, verrebbe risucchiato da quel meccanismo che odia: diventerebbe un adulto, non sarebbe più un bambino e solo i bambini hanno il suo entusiasmo, la sua dolcezza. Soltanto i bambini lottano per ciò che vogliono. Solo i bambini sorridono con l’anima. Se Matteo crescesse avrebbe paura di quel mondo di adulti come, d’altronde, ce l’hanno tutti i bambini. Anch’io ho paura. Ma per me è diverso…io ho paura che Matteo cresca e ogni volta che devo rivederlo sto attenta a leggere i suoi occhi, ad abbracciare il suo sorriso ingenuo uguale a quello che aveva la mattina in classe, uguale a quello che vide sua madre la prima volta che lo strinse a sé quando, per la prima volta, Matteo illuminò il suo pezzetto di universo con la sua luce strana. Non lo vedo spesso. In quindici anni ci saremmo incontrati non più di venti volte: lui è lontano per quel suo cavolo di lavoro che adora, io ho i miei casini…però non mi fido di nessuno come mi fido di lui. Ho la certezza che in qualunque ora del giorno o della notte posso chiamarlo, chiedergli di raggiungermi e vedermelo arrivare dopo un po’, anche se stiamo distanti migliaia di chilometri. Beh, certo, magari arriverebbe in ritardo…anche in questo resta coerente alla sua incoerenza! Ecco:forse dopo due ore, ma se ho bisogno di lui Matteo arriva con la sua camminata strana e quello sguardo un po’ mortificato accompagnato da un incerto sorriso che ti regala sempre quando si aspetta un rimprovero. Me lo immaginavo proprio così al suo arrivo, questa mattina. Avevo bisogno del suo sorriso come il cappuccino ne aveva del caffè. Già. Sapevo che sarebbe arrivato con quell’espressione, la stessa dell’ultima volta che ci eravamo visti, ormai due anni fa: la stessa di sempre. La mia. Stavolta però mi ero fatta furba: non volevo aspettarlo per ore in condizioni…tremende! Incontrare Matteo è sempre incredibile: chi è troppo come lui è anche giusto che si faccia desiderare. L’avevo aspettato per centinaia di interminabili minuti: sotto il sole di ferragosto, la pioggia, la neve…ovunque! Così, stavolta, gli avevo detto che lo avrei aspettato dentro. Nella nostra solita caffetteria. E infatti ero là. Al solito posto, all’angolo, davanti alla vetrata. Dicono che in alcuni casi il tempo condizioni l’umore. Forse stavolta ero io a condizionarlo: il cielo piangeva disperato. Alla mia quarta cioccolata, Matteo è arrivato. È entrato con il suo passo particolare e mi ha cercato con lo sguardo. Mi ha intenerita con la sua faccia “mortificata”, quel suo gesto di arruffarsi i troppi capelli(che fa sempre quando è imbarazzato). E, così, non ha avuto bisogno di chiedermi scusa per il ritardo. Io e lui parliamo per ore con gli occhi negli occhi. In silenzio. E in silenzio stamattina mi ha dato un bacio. Si è tolto il giaccone e ha assaporato piano piano la cioccolata. Con una mano stringeva la tazza e con l’altra stringeva la mia. Ogni tanto si fregava le mani per il freddo, ma uno come Matteo non è mai freddo. La sua mano era calda. Nella mia. Era un po’ assonnato. Però il suo sguardo non era quello di sempre, non era in coma perché la notte, quella prima come tutte le altre, chissà dove diavolo l’aveva passata. Matteo era triste. Magari già sapeva quello che dovevo chiedergli. Forse lo sapeva dalla sera prima, da quando lo avevo chiamato al cellulare, o forse lo sapeva da quel pomeriggio d’agosto di due anni fa quando ero dovuta scappare e avevo dovuto lasciarlo sotto la palma con il broncio. Non mi chiedeva niente. Mi guardava e capiva. Dopo poco ha deciso per me, come sempre e, venendo dietro di me, ha scostato la sedia e mi ha aiutata ad indossare il cappotto. Poi si è messo il suo di giaccone. Matteo ha pagato le mie quattro cioccolate e siamo usciti dalla nostra caffetteria. Nella pioggia.





Dopo un lungo silenzio, con gli

occhi persi nel ricordo e la voce

rotta dall'emozione, il giovane

riprende a parlare.



STUART


-Io Matteo l’ho conosciuto all' Inferno”, no, non quello “vero”, magari...! Commissà, secondo lei quello vero è più marcio e affollato di quel fottuto Night Club? Mah... Non ne so molto di 'sto Matteo Di Giorgio, stava là quasi tutte le notti... Lui mi ha presentato Roberta: non c'è che dire...una gran figa! E in tanti anni di “onesta carriera” nessuno mi ha mai commissionato un lavoro con tanta... “eleganza” e precisione come lei: pareva che avesse studiato tutto da anni e pareva n'angelo ferma ferma su quello sgabello, con quelle gambe lunghe lunghe accavallate. Me la sarei bevuta come 'na Coca Cola e sarebbe stato bello morì soffocato in mezzo a tutti quei capelli. Batteva sul bancone certe unghie che parevano artigli: sapeva bene chi ero e cosa voleva. Voleva me. Io non lo sapevo che voleva lei da me. La voce ubriaca, ma l'alito non puzzava manco un po'. Certo le cose non sono proprio mai come sembrano... Non era così glaciale come il suo completino voleva far credere. Gli occhi spersi chissà dove, le mani bagnate, giocherellava con quel maledetto bracciale, un bracciale pesante che luccicava e ti cecava pure dentro a quel buco buio. Mia sorella ne aveva uno così da piccola; quando giocavamo a nascondino, io la trovavo sempre: pure se lei si nascondeva bene, la luce di quel bracciale non ci riusciva mai.









LOCALE NOTTURNO “IL BARO”

INTERNO NOTTE

Roberta Abbiati siede a un tavolino di fronte a Stuart e tamburella sul plexiglas con le lunghe unghie laccate. Gli parla con voce rauca.




ROBERTA ABBIATI


Ho bisogno di te. Ho bisogno che tu faccia un “lavoretto” per me. Presto. Fra quindici giorni. Ti dico il posto e la persona, ok?

Quanto ?



STUART


Quindicimila



ROBERTA ABBIATI


Bene. Ne avrai una metà stanotte alle tre, sotto la quercia del “Giardino Blu”, dentro la tigre di marmo. L'altra metà te la darà Matteo a lavoro finito.














DISTRETTO DI POLIZIA

INTERNO NOTTE

Stuart continua a raccontare la sua storia al commissario ormai esausto ma comunque fremente.


STUART


Cazzo commissà, quella voce calda calda come 'na torta, era di un assassino. Ah, le cose non sono proprio mai come sembrano...In una vita di merda pure una gatta assassina fa compagnia e c'hai paura se se ne va.


COMMISSARIO


E tu vuoi farmi credere che un assassino della tua razza ubbidisce buono buono e zitto zitto alle parole contorte di una donna vista una volta?



STUART


Io non guardo in faccia nessuno. Mai. Non m'impiccio del perché qualcuno ha “bisogno” di me. Lo faccio e basta. Quello che conta sono i soldi: se ci sono bene. La vita è rischio per tutti. E poi…di che cosa dovrei avere paura? Ne ho viste così tante …

Lo sa chi è Lancillotto commissa’?


COMMISSARIO

Oh mio dio...! Non ci posso credere: questo sta delirando...!




STUART


Ha visto il film in televisione con Richard Gere? Beh, là c’è una scena che mi secca da pazzi, quando Lancillotto dice a re Artù di non avere paura di niente e di nessuno. Allora re Artù gli fa:

“…ma un uomo che non teme niente è un uomo che non ama niente e, quindi, quale gioia può esserci senza l’amore?”

Lancillotto non risponde. Manco io rispondo. Non mi metto qua a raccontarle il polpettone che so' diventato uomo a 6 anni, tossico a 13, assassino a 15...l'ho fatto: cazzi miei e basta.


COMMISSARIO


Insomma Kim piantala! Che cosa hai fatto dopo aver incontrato Roberta Abbiati?!?


STUART


E che potevo fare? Sono andato a prendermi i miei soldi al “Giardino Blu”:erano tutti là, bravi bravi. Sapesse: un posto da brivido. Mi sono messo a pensare se quello zainetto lo aveva nascosto là l’ombra di Roberta: chissà se quell’ “angelo nero” aveva avuto paura... Eh sì commissa', me lo so' pure chiesto chi voleva ammazzare una come Roberta, una che pareva che c'avesse tutto: i soldi, la bellezza... ma le cose non sono mai come sembrano. Pensavo a 'na storia di sesso, d'intrallazzi economici... ma era meglio se mi facevo solo i cazzi miei. Però mi piaceva l'idea di mori' per mano sua...

A una quindicina dall’incontro al Night con Roberta, all'ora stabilita, nel posto stabilito, il mio bersaglio di carne e ossa uguale uguale alla descrizione che mi aveva dato Roberta, girava l’angolo stabilito.

Presi la mira ma quel modo lento di camminare mi pareva d'averlo già visto e quella luce strana, che veniva dritta dritta dal braccio del mio bersaglio, mi bucava l'occhio e non mi faceva mettere a fuoco. Cominciai a correre come un pazzo, stordito, furioso: l'adrenalina a mille! Gli strizzai un braccio tanto da spezzarglielo. Mi si buttò ai piedi e mi si legò a una gamba: urlava e piangeva.



PENSIONE “L’INCUBO”

INTERNO SERA


Roberta Abbiati e Stuart si trovano nella stanza di una pensione,“L’incubo”. Vista:tangenziale.

La voce fuori campo di Stuart

ricorda...




STUART


La pensione “L’incubo” è una bettola con tante stanze a poco prezzo. Vista: tangenziale. Appena fuori città. Là ne succedono di cose “strane”! I proprietari sono tipi seri perché…si fanno i cazzi loro: Gogò se ne sta sempre sulla sedia della portineria a dormire e, se arrivano gli sbirri, lui appena li vede dice che non ha sentito niente perché dormiva. E forse non ha sentito davvero: a forza di farlo, il sordo, ci è diventato. Ha una vecchia cameriera che dovrebbe pulire quei tre piani cadenti ma, a quanto pare, alla vecchia piace di più farsi le sue sigarette che fare le pulizie. Così, se la notte succede qualcosa, nessuno sa niente. Non ci sono occhi in giro tranne quelli dei topi che, se potessero parlare, ne avrebbero da raccontare...! “L’incubo” puzza di muffa e il perché può stare aperto lo sanno in pochi, ma fa comodo a molti: ad esempio fa comodo a me...

La stanza dove stavamo era tremenda: mobili tarlati, moquette sporca, lenzuola sgualcite…da vomito. Entrò senza dire una parola: manco un solo movimento della faccia. Dal balconcino la vista era tutta un’ erbaccia sterile; quando mi venne vicino mi sembrò che “L’incubo” stava dentro a una grande vallata, con un casino di alberi . Poi se ne tornò dentro e quello che restavo a guardare erano sterpaglie e un cielo sul punto di bestemmiare.

Stava immobile davanti allo specchio: voleva piangere ma non ci riusciva.


STANZA DELL’ “INCUBO”

INTERNO SERA

Roberta ha un'espressione assente, Stuart è disgustato dal posto. Roberta si siede sul letto. Stuart apre la finestra. I vetri sono rotti. Stuart si affaccia sul balconcino: il panorama è tutto un’ erbaccia sterile, ma quando Roberta gli si avvicina il suo volto rivela un' inaspettato eccitamento. Poi però Roberta rientra e Stuart torna ad avere la sua aria cruda e glaciale. Roberta se ne sta immobile davanti allo specchio.


ROBERTA ABBIATI


Sai cosa vedo? Niente. Io sono…niente. Non la sopporto più la mia nullità. Me ne sto sempre con me che sono niente. Quindi parlo con il niente, mangio con il niente, me ne sto nella mia stanza con il niente, cammino per strada con il niente: con me e basta. Sempre. A volte riuscivo a piangere per ore. Ormai non ha nemmeno più senso farlo se nessuno può ascoltarti, se nessuno vuole aiutarti. Ci sono io e basta nella mia vita e nelle mie lacrime e non lo sopporto. Non lo reggo più quel dolore lancinante , così forte, che mi avvinghia quando piango e lo sento salire dallo stomaco…è insopportabile e pesantissimo! Si blocca qui, all’altezza del petto e ci resta. Non può uscire, non riesco a sputarlo: “niente” non può aiutarlo. Invidio quelli che piangono quasi a comando, fermi, poche lacrime, nessuna espressione: pare che quelle lacrime siano più dolci. Li invidio perché mi pare che le loro lacrime non gridano di disperazione come le mie. O forse li capisco perché pure loro, come me, ne hanno talmente tanto di dolore che non riescono nemmeno più a buttarlo fuori. A sentirlo. Sentire dolore è una fortuna: senti in un momento la felicità e capisci che sei felice perché non puoi esserlo sempre. Io sento il dolore in ogni momento e capisco solo che posso esserlo di più, ma che non posso essere felice.

Vorrei sfogarmi, gridare, spaccare tutto, vorrei spiegare, muovermi, andare, fare, però…non posso farlo. Non ce la faccio. Non avrebbe senso. Resto immobile, controllo la rabbia ma più cresce e mi divora: divento “lei” .





DISTRETTO DI POLIZIA

INTERNO NOTTE

Stuart continua a raccontare, fermo, tranquillo, lo sguardo sempre fisso a terra, perso nei suoi ricordi. Il commissario gli cammina nervosamente intorno.






STUART


Quella notte la passai ad ascoltare il suo respiro, quando diventava più forte. Mi pareva sempre troppo leggero e, non sapendo se dormiva oppure no, non potevo premere il grilletto. Questa era la mia scusa.

Ore, minuti, secondi senza fine, su quello schifo di letto, in quello schifo di posto.

Vicino a me, un angelo si era addormentato, tranquillo, la sera prima, per non svegliarsi più la mattina dopo. Lo aveva fatto con calma...davvero? Che aveva pensato prima di addormentarsi? E…stava veramente dormendo? Il sonno, quello definitivo, era davvero l'unica cosa da fare? Si voltava di qua e di là insieme a tutti quei riccioli: qualcuno copriva la faccia, qualcun’ altro le spalle, un altro ancora la bocca.

Pensai a Lancillotto, che non c'ha paura di niente fino a che non incontra la sua donna, quella persona che ha paura di perdere e…Ho avuto sempre le palle per fare qualsiasi cosa, anche la porcheria più sporca …ma da allora commissa’…da quella notte, io non ce l'avevo più il coraggio di uccidere: ne ho ammazzate così tante di persone, uomini, donne, vecchi, ragazzi, pure donne bellissime... ma non me ne fregava un cazzo! Quello era il mio lavoro. Però…adesso...era diverso: Cristo! Non ci riuscivo! Non ce la facevo a ammazzare quegli occhi che c'avevano dentro quella luce spezzata e c'avevo un odio furioso per 'sto mondo di merda che aveva spento quella luce!





STANZA DELLA PENSIONE

L'INCUBO”.

INTERNO GIORNO.


ROBERTA


Anche se hai gli occhi azzurri e i capelli biondi, non credo proprio che tu sia un angelo e che questa stanza sia una specie di... “aldilà”, vero? Beh, altrimenti sarebbe una fregatura : non siamo in un posto molto diverso da quella pensione dove tu…non mi hai ancora fatto fuori.

Bene. Poco male. Dovevo fare ancora una cosa. Voglio bruciare mio padre. Mi passi quell’agenda per favore?


STUART


Che vuoi bruciare?


ROBERTA


Voglio bruciare mio padre.


STUART


Ma che cazzo significa?


ROBERTA


Beh, vedi, è un po’ come se mio padre fosse quest’agenda. È l’unico regalo che mi ha fatto. Molto tempo fa. E anche questo regalo, come ogni momento o parola che mi ha dedicato, nascondeva una sorta di… “debito”. Io certo le ho deluse tutte le sue aspettative…


Stuart porge a Roberta dei

fiammiferi. Lei si siede per

terra e strappa una pagina

dell'agenda,

17 Febbraio, mercoledì.

Poi dà lentamente fuoco

a tutte le altre pagine.


ROBERTA


Mio padre mi regalò quest’agenda il primo giorno di università “...perché” disse lui “tu possa realizzare studi brillanti e prestigiosi”, proprio “quasi” come aveva fatto la mia brillante sorella nella sua prestigiosa università. Non lo saprà mai nessuno quanto ho lottato e pianto per poterlo fare …Non ci riuscivo. Toppavo esame su esame, persi sempre di più il poco coraggio che avevo e la paura riuscì solo a farmi correre in fretta, veloce, il più lontano possibile da quella stramaledetta università. E i miei credevano che me ne fregassi...di tutto.

Da sempre, per tutti, sono un “errore” e gli errori, si sa, si pagano prima o poi. Non credo che la mia famiglia mi abbia mai dato stima: ah, mia madre e mio padre, con il loro studio profumato, gli innumerevoli clienti, le amicizie esclusive...! Certo io non ne ho mai avuta di stima per me. Ero sempre “meno di…”: mi mancava sempre “qualcosa”. Colpa mia.


Roberta continua a parlare

mentre l'agenda è in fiamme,

davanti a lei.

Il suo sguardo è congelato:

fissa un punto lontano anni

luce.


ROBERTA


Si tratta di percentuali: se tutto il resto del mondo ti sembra sbagliato, vuol dire che tu lo sei. E quando hai troppa paura di affrontare le cose, prima o poi quella ti taglia le gambe e manda in pezzi ogni giorno che vivi o credi di vivere perché lo butti giù amaramente con un sorso di whisky. Hai paura di soffrire e così non ti lasci coinvolgere troppo perché di schiaffi ne hai già presi e non ti va di prenderne altri. A quel punto, a forza di scegliere amici che per il tuo compleanno ti regalino pugnalate , te ne stai con il tuo non-coinvolgimento, con i tuoi non-sentimenti. E quando ti accorgi che comunque non funziona, allora ti lasci andare agli altri, a quelli che trovi, a quelli sbagliati, alla vita, a quella sbagliata che, in quel preciso istante, ti uccide di nuovo, Uccide quel nuovo te stesso che avevi rincollato a fatica. Come lottano rabbia e amore qui dentro...! A che serve, tanto, lottare? In questo mondo più fai schifo e più piaci . Io di lacrime non ne ho più perché ho pianto sempre due volte: per me e per gli altri.
















DISTRETTO DI POLIZIA

INTERNO NOTTE

Stuart conclude il suo racconto, è sempre bloccato nella stessa posizione iniziale, con le gambe abbandonate, incrociate e gli occhi bloccati sul pavimento. Il commissario siede finalmente alla sua scrivania, sudato, stanco, silenzioso, immobile, assorto.





STUART


Sa commissa'? Io volevo dire qualcosa, davvero, tante volte...ma non ci riuscivo mai. Volevo dire che senza gli “zeri” come noi come fanno, “loro”,quelli “invincibili”, a essere milioni? Avrei voluto dire a quell’angelo che a volte gli stronzi che vogliono volare con una come lei, si dimenticano che le sue ali non possono bastare per entrambi. Avrei voluto dirle che spesso la gente ci usa, però non vogliamo vederla la verità, ci illudiamo che vogliano bene un po’ pure a noi, perché a se stessi è sicuro che gliene vogliono un casino! Avrei voluto gridarle che sì, forse ne aveva prese tante di sberle dalla vita ma…cazzo! Non ci si deve lasciare uccidere dagli altri, in silenzio.

Avevo sempre pensato che nascondeva un altro po’ di voglia di rivincita...poi gliel'ho letto negli occhi che di forza non ce n'aveva più e non riusciva manco più a vedere che c’era chi l’amava, che c’era Matteo, che c’ero io. Non vedeva più niente perché c'era rimasto soltanto il dolore davanti a lei. Ah...perché le cose non sono mai come sembrano?

Ma lei lo sa, commissario, quanta cazzo di gente ho visto in faccia mentre mi pregava di non ucciderla? Roberta mi chiese tutto il contrario! Ma come si fa a vestirsi di tutto punto per andare a un appuntamento con un assassino che ti sei pagata tu…?

Ogni giorno ognuno di noi uccide... “qualcuno”.

L’ho uccisa io Roberta Abbiati perché ho premuto il grilletto del mio amore, o l’hanno uccisa tutti quelli che l’hanno soffocata, illusa, che l’hanno usata perché gli faceva comodo, che non l'hanno amata, che non l'hanno ascoltata perché non avevano tempo, né capita perché era… “complicata”?

Mio padre ha sempre detto che i filosofi non sanno e non capiscono un “emerito cazzo” e che la filosofia non serve a niente.

Io ricordo le parole di Marcel: “Amare vuol dire: tu non morrai.”-



Dal mio romanzo "La Vedova"

CAPITOLO QUINTO (DOPO)

FREDDO, TROPPO FREDDO

Eccolo. L'angelo rosso. Eccomi, davanti alla porta di casa nostra, ormai casa mia e basta da quando mia suocera, tua madre, mi ha portato pure dal Giudice per avere cinquemila euro come regalo per la tua morte, lei che nemmeno al matrimonio ci ha regalato nulla e che quando ha saputo che le spese del funerale le avrei interamente sostenute io ha detto, in obitorio, davanti a te disteso:

  • Allora prenditelo e seppelliscilo dove ti pare...

Ecco. C'è giustizia per questo? Come hanno fatto quelle e tante altre parole e cose a non uccidermi? Forse perché sono forte, come mi dicono in tanti e io parafraso “insensibile”? Perché hai permesso che mi succedesse questo? Perché mi hai lasciato qui a farmi sbranare un po' da tutti io che pensavo a tanto, a troppo, ma a questo non avevo mai pensato: immaginavo che nonostante Tutto e Tutti saremo stati sempre io e te. Invece... Sono qui. Sola. Per sempre, ormai è deciso: nessuno mi sopporta più e io non sopporto più nessuno o viceversa. Non lo so. Fatto sta che sono passati cinque anni come gli anelli che porto ancora alle mani per ogni anno del nostro matrimonio... perché lo faccio? Era tutto idilliaco? No, ma era. Dimensione. Io e te. Casa. E adesso solo io... che figata eh Ci? Perché poi ti chiamo “Ci”? Ah, sì... ti ricordi? Mi ricordo: sta per Ci ccio, Ci cciotto io che adoro le cose, i cagnolini, i bambini cicciotti, la tua pancetta; il nostro modo speciale di chiamarci, di chiamarti e ora? Che me ne farò anche di queste due lettere ridicole, anche di questo ricordo ustionante tutte le volte che mi verrà in mente o che lo ascolterò per sbaglio nella mia mente, sulla mia bocca o da quella degli altri...?

Sono venuta qualche settimana fa qui in paese perché da troppo tempo la carta d'identità era scaduta ma non l'avevo rinnovata proprio perché non volevo tornare qui. Ma poi ho dovuto. Ho attraversato questi vicoli piangendo e da tempo mi ero ripromessa di non farlo più: un po' di dignità e che cavolo! Non lo avevo mai fatto; alle elementari una volta avevo pianto davanti a tutti perché umiliata dalla maestra zitella che mi odiava; davanti ai miei genitori, a mia madre che mi accusava chissà di cosa, forse di essere nata perché bastava mio fratello. E davanti a te, forse davanti ad un'amica quando quello stronzo del mio ex mi aveva combinato la sua ennesima cattiveria... e basta. Odiavo farmi vedere piangere, farmi vedere debole, tanto poi non gliene frega niente a nessuno e ti sanno solo guardare con quel sorrisino falso di commiserazione e pensano:

Meglio a lei che a me...”

Che crudele che sono, eh? Vedi, me li merito gli schiaffi della vita... Eppure, quando sei morto, ho pianto e tremato, tremato e pianto, inguardabile, davanti a tutti: al tizio delle Pompe Funebri, per strada, sull'autobus, davanti a quelli della banca, all'ufficio cimiteri, al supermercato, per strada... mi chiedevano qualcosa o anche no e io cominciavo... che scema.

Arrivando vedevo tutto uguale: le strade, le case, i negozi e mi chiedevo come fosse possibile... Com'è possibile che se io cinque anni fa mi sono rotta, spezzata, qui è rimasto tutto uguale, niente è imploso o esploso come me? Camminavo tremante e sola e in lacrime per quelle stradine conosciute a memoria che avevamo scelto, amato, che ci avevano visto passeggiare sorridenti, incazzati, annoiati, con il sole, la pioggia, la neve, con l'inverno, l'estate... chissà se le strade sanno, se mi riconoscono, se si beffano di me o gli faccio pena o non gli trasmetto un emerito cavolo sia perché ultimamente riesco facilmente a farmi dimenticare sia perché, più semplicemente, sono strade e basta e devo smetterla con queste cazzate da Lo Schiaccianoci per cui, quando usciamo dalla stanza, i giocattoli, gli oggetti si animano: non ce l'hanno più le persone l'anima, figuriamoci le cose... o forse sì?

Basta. Non pensare. Concentrati. Cerca di sembrare più normale possibile. Potresti incontrare qualcuno che conosci. Tanto ormai lo sanno tutti che sei strana, sfigata e che non sei affatto normale ma, almeno, provaci... sono passati cinque anni...”, pensavo camminando i passi con rabbia per scacciare quel freddo appiccicoso da dentro.

Temevo che mi vedessero: mi avrebbero riconosciuta i vicini? Che cosa avrei dovuto dire? Sarebbe stato meglio non incontrare nessuno e invece...

-Buongiorno, si ricorda di me?

-Oh mio Dio... certo...

-Mi scusi, io...

-Ma di che ti devi scusare... Sai io quel giorno l'avevo visto, la mattina stessa, era qui sotto fumava come sempre, ci siamo salutati...

Eh Signora, anche io lo avevo visto quel giorno, ci avevo parlato, pranzato... come sempre e, invece, l'avverbio “sempre” stava già cominciando a cancellarsi.

Inizio a piangere. Di nuovo. Davanti a qualcuno. Non lo sopporto. È da un po' che non succedeva. Non so che dire. Voglio scappare e isolarmi nel mio dolore. Ascolto altre frasi di circostanza:

-Per fortuna che hai questo... per fortuna che hai quest'altro...

E poi, puntuale, comincia lo scambio delle sciagure: a te è accaduto questo, a me quest'altro; è una specie di Natale degli orrori, non ci si scambia regali ma disgrazie. Annuisco. Come sempre. Che diavolo dovrebbero dirmi? Boh.

  • Se hai bisogno di qualcosa...

  • Grazie, magari passerò...

Ma poi non si passa mai e anche se si ha bisogno non si chiede e se si chiede difficilmente si ha, comunque non si ha mai quello che si vorrebbe quando lo si vorrebbe: ma questo è un altro capitolo.

E quindi sono qui, davanti a questa porta, cinque anni dopo con questo accidenti di angelo rosso che brilla: che ti brilli Lucifero presago?

Apro la porta, ogni passo un botto allo stomaco, un muro da abbattere. Casa nostra, incredibile, sembra uguale: come se l'avessi lasciata ieri. Meglio così. Problemi in meno da risolvere, da sola, problemi che comunque ci sono sempre... giro per le stanze vuote, vuota, fa freddo, cose da sistemare, cose da aggiustare, ti cerco quasi dovessi sbucare fuori da una camera da un momento all'altro ma non è così e non ce la faccio e mi siedo perché la cosa più rotta di tutte non si può sistemare: tu non aprirai quella porta con il tuo sorriso buono o con la tua faccia scura. Non l'aprirai più e basta e io devo rassegnarmici e smetterla di pensare che sia uno scherzo e devo piantarla di riconoscerti per strada. Devo pulire, ricostruire, sistemare, fare per non pensare e riuscire magari persino a vendere finalmente questa casa ma, questa “cosa”, “te”... non ti posso ricostruire. Nella testa, nel cuore: sempre. Ma la realtà, la dura realtà ce l'ho davanti, dietro e tutt'intorno. Silenzio. Nemmeno il rumore odioso delle litigate o quello fastidioso di quando provavi un pezzo nuovo alla chitarra. E finalmente, scrivendo queste cose, sto piangendo: era da mesi che non mi succedeva, pensavo di avere finito l'anima o le lacrime, invece...

Ma piango egoisticamente per me perché so che non sarò più felice o vagamente tale con qualcuno o perché non rivedrò più te? Entrambe. Entrambe le cose e fa freddo e tu non puoi abbracciarmi e mi abbraccio da sola come canta Achille Lauro in Che sarà?










"Dove vivo mi fa schifo"


Questo diario inizia così: 


"Questa non è la solita storia melodrammatica con finale scontato: “carpe diem” (beh, un po’ melodrammatica magari ci è…). Questa è l’apoteosi, la sublimazione, l’elettrica messa in atto del “carpe diem”. Per precorrere tutti quei premi Nobel che vi hanno detto, vi dicono e vi diranno che è meglio vivere di rimorsi che di rimpianti(…bella scoperta del cavolo fritto!). Perché a volte per fare una cosa si ha bisogno di un esempio.
E allora: eccovi il mio..."








"Fuori da tutto"


Vi è mai capitato di sentirvi fuori da ogni persona, realtà, dimensione, schema? Vi è mai capitato di sentirvi dentro niente e nessuno? Bene, la protagonista di questo romanzo si sente come un pesce costretto a camminare per la strada e, allora, prova a rileggere le sue lettere di ieri e quelle di oggi per capire se si sentiva meglio prima oppure adesso. Ma le conclusioni della sua lettura  non saranno così semplici da tirare...