Quando
sono nato
Quando
sono nato nessuno mi guardava: mia madre piangeva disperata,
afferrava con le unghie le lenzuola, si contorceva maledicendo mio
padre per quello che le aveva fatto, cioè... “io” ; mio padre
andava su e giù per la stanzetta triste di quell'ospedale sporco e
un po' guardava per terra, un po' il soffitto giusto quando
imprecava; la nonna parlava, parlava, soffocando con il suo
fastidioso dialetto le lacrime della mamma, le bestemmie di papà e
non capiva che con tutte le sue chiacchiere non avrebbe sistemato un
bel niente, avrebbe semplicemente procurato l'ennesima emicrania alle
infermiere che se ne stavano sbalordite nel corridoio ad assistere a
quello che avrebbe dovuto essere il mio primo dolce, tenero e
commovente abbraccio alla mamma( già... “tenero”! Già...
“commovente”... beh, in effetti di lacrime ce n'erano... ma non
di gioia); mio nonno se ne stava zitto zitto con gli occhi fermi
sulla spalliera di ferro del letto, i suoi occhi neri erano rossi
quel giorno, il giorno in cui sono nato, terrorizzati non so da cosa
o, meglio, allora non lo sapevo ma adesso posso dire con certezza che
fosse spaventato a morte da me, dalla mia nascita, dai miei primi
vagiti però, anche in questo momento, continuo a chiedermi come mai
il suo terrore fosse esploso tutto proprio quel giorno e perché non
lo avesse vomitato durante i nove mesi della mia permanenza nella
pancia della mamma.
Ah,
la pancia della mamma! Ora la ricordo con un fortissimo e
dolorosissimo senso di nostalgia... là dentro era tutto sicuro, mi
sentivo protetto e devo ammettere che, una volta uscito di lì,
nessun posto mi avrebbe dato mai tutta quella pace per ben nove mesi
di seguito! Eppure io le vedevo le cose da là dentro, lo capivo
quello che succedeva: ascoltavo sempre tanta gente riunita, a tavola
magari, che si sorrideva felice, che rideva di gusto, solamente
qualche rimprovero per i miei frattellini ma mai voce alta o cattiva,
mai discussioni, litigate... In nove mesi era come se tutte quelle
bocche felici, serene, covassero il disprezzo, l'inquietudine e la
guerra che sarebbe esplosa, come un botto di Capodanno, proprio al
momento della mia nascita. Fortunato non lo sono stato, questo è
sicuro, ma ho imparato tante cose subito e in poco tempo. Ho
imparato, per esempio, che spesso gli adulti ridono quando vogliono
piangere ma se piangono raramente avevano intenzione di ridere e ho
imparato pure che, fino a quando non si scontrano con gli “ostacoli”,
i “pericoli”, gli adulti camminano, parlano, fanno finta di
niente eppure lo sanno che l'ostacolo di lì a poco ci sarà, nel mio
caso dovrei dire “nascerà”, ma si ostinano in ogni modo a
rimandare il problema, a ritardare la discussione tra un sorriso di
carta e una parola di gomma. Lì, da dentro la pancia della mamma, la
vedevo la gente sorridere, era tutta un' esplosione di risatine, di
carezze: mio padre si occupava di mia madre, del suo pancione, con
una premura che non avrei mai più conosciuto, tutti le si
rivolgevano con delicatezza e lei non poteva che ricambiare quelle
affettuosità con un tono languido, carezzevole che, manco a dirlo,
io non avrei mai ascoltato “dal vivo”.
Io
non ero io, già da allora ero il “suo pancione” ma non lo avevo
ancora capito e proprio perché ero il “suo pancione” e non un
essere umano in procinto di nascere, venivo servito di ogni cura
possibile: avrò incontrato, in nove mesi, almeno un dottore al
giorno, ero al caldo se la temperatura scendeva di un minimo,
prendevo aria se il clima era appena appena più torrido, carezze,
paroline dolci, battutine, libricini colorati, giocattoli lisci,
pelosi, di gomma... erano tutti per … no, non per me ma per “lui”,
il “suo pancione”. Raramente in quei nove mesi mia madre beveva
quella che era la sua bevanda “da colazione”, la birra, o
ingeriva quelle sostanze che avrei imparato a conoscere, ahimè,
molto bene e che mi divertivano per i loro colori e per gli effetti
febbricitanti che davano a me, perché gli effetti che invece davano
alla mamma non mi piacevano affatto...
E
adesso? Proprio nel momento in cui venivo alla luce, che fine avevano
fatto la serenità, la gioia, le risate, le parole calme? Boh! Non
c'è che dire: una bella e calorosa accoglienza. La quiete era
finita, la tempesta iniziava a montare pericolosamente ed io, dal
canto mio, cominciavo a capire molte cose, molte di più di quelle
che capiscono le persone che non soffrono, iniziavo a diventare molto
più grande ogni secondo e, allora, proprio per quell'unico e primo
giorno di vita decisi di fare sciopero, di dare un bello schiaffo
morale a chi non si accorgeva nemmeno della mia presenza: durante
quel primo giorno di vita, IO non piansi.