venerdì 21 agosto 2015

Quando gli angeli volano all'in giù (racconto breve)

BARBARA PRESICCE



“Quando gli angeli

volano

all' in giù”

(Fiaba moderna)


“Quando sono nato”
Quando sono nato nessuno mi guardava: mia madre piangeva disperata, afferrava con le unghie le lenzuola, si contorceva maledicendo mio padre per quello che le aveva fatto, cioè... “io” ; mio padre andava su e giù per la stanzetta triste di quell'ospedale sporco e un po' guardava per terra, un po' il soffitto giusto quando imprecava; la nonna parlava, parlava, soffocando con il suo fastidioso dialetto le lacrime della mamma, le bestemmie di papà e non capiva che con tutte le sue chiacchiere non avrebbe sistemato un bel niente, avrebbe semplicemente procurato l'ennesima emicrania alle infermiere che se ne stavano sbalordite nel corridoio ad assistere a quello che avrebbe dovuto essere il mio primo dolce, tenero e commovente abbraccio alla  mamma( già... “tenero”! Già... “commovente”... beh, in effetti di lacrime ce n'erano... ma non di gioia);  mio nonno se ne stava zitto zitto con gli occhi fermi sulla spalliera di ferro del letto, i suoi occhi neri erano rossi quel giorno, il giorno in cui sono nato, terrorizzati non so da cosa o, meglio, allora non lo sapevo ma adesso posso dire con certezza che fosse spaventato a morte da me, dalla mia nascita, dai miei primi vagiti però, anche in questo momento, continuo a chiedermi come mai il suo terrore fosse esploso tutto  proprio quel giorno e perché non lo avesse vomitato durante i nove mesi della mia permanenza nella pancia della mamma.
Ah, la pancia della mamma! Ora la ricordo con un fortissimo e dolorosissimo senso di nostalgia... là dentro era tutto sicuro, mi sentivo protetto e devo ammettere che, una volta uscito di lì, nessun posto mi avrebbe dato mai tutta quella pace per ben nove mesi di seguito! Eppure io le vedevo le cose da là dentro, lo capivo quello che succedeva: ascoltavo sempre tanta gente riunita, a tavola magari, che si sorrideva felice, che rideva di gusto, solamente qualche rimprovero per i miei frattellini ma mai voce alta o cattiva, mai discussioni, litigate... In nove mesi era come se tutte quelle bocche felici, serene, covassero il disprezzo, l'inquietudine e la guerra che sarebbe esplosa, come un botto di Capodanno, proprio al momento della mia nascita. Fortunato non lo sono stato, questo è sicuro, ma ho imparato tante cose subito e in poco tempo. Ho imparato, per esempio, che spesso gli adulti ridono quando vogliono piangere ma se piangono raramente avevano intenzione di ridere e ho imparato pure che, fino a quando non si scontrano con gli “ostacoli”, i “pericoli”, gli adulti camminano, parlano, fanno finta di niente eppure lo sanno che l'ostacolo di lì a poco ci sarà, nel mio caso dovrei dire “nascerà”, ma si ostinano in ogni modo a rimandare il problema, a ritardare la discussione tra un sorriso di carta e una parola di gomma. Lì, da dentro la pancia della mamma, la vedevo la gente sorridere, era tutta un' esplosione di risatine, di carezze: mio padre si occupava di mia madre, del suo pancione, con una premura che non avrei mai più conosciuto, tutti le si rivolgevano con delicatezza e lei non poteva che ricambiare quelle affettuosità con un tono languido, carezzevole che, manco a dirlo, io non avrei mai ascoltato “dal vivo”.
Io non ero io, già da allora ero il “suo pancione” ma non lo avevo ancora capito e proprio perché ero il “suo pancione” e non un essere umano in procinto di nascere, venivo servito di ogni cura possibile: avrò incontrato, in nove mesi, almeno un dottore al giorno, ero al caldo se la temperatura scendeva di un minimo, prendevo aria se il clima era appena appena più torrido, carezze, paroline dolci, battutine, libricini colorati, giocattoli lisci, pelosi, di gomma... erano tutti per … no, non per me ma per “lui”, il “suo pancione”. Raramente in quei nove mesi mia madre beveva quella che era la sua bevanda “da colazione”, la birra, o ingeriva quelle sostanze che avrei imparato a conoscere, ahimè, molto bene e che mi divertivano per i loro colori e per gli effetti febbricitanti che davano a me, perché gli effetti che invece davano alla mamma non mi piacevano affatto...
E adesso? Proprio nel momento in cui venivo alla luce, che fine avevano fatto la serenità, la gioia, le risate, le parole calme? Boh! Non c'è che dire: una bella  e calorosa accoglienza. La quiete era finita, la tempesta iniziava a montare pericolosamente ed io, dal canto mio, cominciavo a capire molte cose, molte di più di quelle che capiscono le persone che non soffrono, iniziavo a diventare molto più grande ogni secondo e, allora, proprio per quell'unico e primo giorno di vita decisi di fare sciopero, di dare un bello schiaffo morale a chi non si accorgeva nemmeno della mia presenza: durante quel primo giorno di vita, IO non piansi.
“Barcollo”
-Mamma mi dai un zucco di frutta?
-Stai zitto cretino, non ho un soldo. Mettiti qui e dormi!
-Ma io ho fame... è da tante ore che camminiamo e non ce la faccio più!
-Se non ti stai zitto ti faccio nero!Piantala!
Non avrei ottenuto niente quella volta, soltanto qualche schiaffo e spintone in più. L'unico modo per mangiare, in quei casi, era andare al supermercato, prendere le cose e nasconderle sotto la maglietta o nello zainetto delle tartarughe ma, in quelle lunghissime ore in cui mia madre era particolarmente fuori di sé, non aveva neanche voglia di portarmi a rubare. L'unica cosa che potevo fare era addormentarmi su quella panchina fredda e sporca. Faceva così freddo che quando mi svegliai le lacrime mi erano rimaste attaccate sulle guance.
I giorni che passammo lontano da papà e dai nonni furono terribili: camminavamo senza meta tutto il giorno, mangiavamo quello che ero costretto a sgraffignare nei negozi e spesso dovevo stare solo quando la mamma si allontanava per diversi minuti con qualche signore... Nessuno poteva aiutarci, nemmeno le amiche sballate della mamma volevano farlo quella volta. Mi sentivo solo, così solo... per strada... avevo freddo, ero confuso, stordito... giocavo spesso a fare Lo Schizzo... desideravo moltissimo che tutto quello finisse, che la mia vita finisse se mi riservava solamente quei giorni interminabili e vuoti.
La mamma non mi guardava mai negli occhi, diceva solo parolacce e cose orribili su mio padre, sui miei nonni, su di me. Ero stanco: le mie spalle, ahimè, erano troppo piccole per reggere tutti quei problemi, avrei voluto essere grande per poter fare di testa mia, per poter scappare, per poter badare seriamente a me stesso senza avere bisogno di nessuno. Ma ero piccolo: avevo solo cinque anni.
La mamma era una furia, faceva tutte cose senza senso: percorreva una strada, poi tornava indietro e dopo, di nuovo, tornava a camminare lungo la stessa via, oppure entrava in un negozio ma ne usciva subito perché diceva che un tipo l'aveva urtata o che qualcun' altro l'aveva guardata di traverso... era tutto così insopportabile ed estenuante!
Dopo qualche giorno papà venne a prenderci e vidi la stessa scena di sempre: prima si presero a botte e a parole e poi si baciarono. Io, l'ostaggio, venivo sollevato di forza e portato via: nessuno mi chiedeva se avevo sofferto o quanta paura avessi covato dentro. Niente: io ero l'ostaggio, quel coso che si poteva barattare con i soldi e la pazienza dei nonni.
Così, tornammo a casa della nonna ma...niente era più come prima: nemmeno lì mi sentivo più sicuro. Tanto ero certo che, da un momento all'altro, ci sarebbe stata una nuova discussione e mia madre avrebbe minacciato di portarmi via se non le venisse dato quello che voleva ma, dato che nemmeno lei sapeva quello che voleva perché era solo la rabbia ubriaca che le viveva nell'animo a parlare per lei, ben presto mi avrebbe portato via un'altra volta ancora, mi avrebbe nuovamente scaraventato nella sua vita sozza e raminga.
Avevo continui attacchi di panico, crisi improvvise e furibonde di pianto perché mi tornavano alla mente le scene che avevo dovuto vedere insieme alla mamma, perché avevo il terrore di rimanere solo sotto le sue folli mani, perché non volevo rivivere il freddo, la fame, la vergogna di dover rubare per farla felice, per vedere sul suo volto un piccolissimo spiraglio di sereno. I nonni non sapevano come calmarmi: la camomilla non era più sufficiente, gli abbracci mi sembravano solo finte e inconsistenti consolazioni.
Non avevo più voglia di camminare, sarebbe stato meglio se io non avessi potuto farlo così nessuno mi avrebbe trascinato via. All'improvviso l'impossibilità di camminare e la voglia di non farlo, si fusero in me in una sensazione sola che mi faceva sbandare, barcollare, cadere per terra con botti sordi che si ripetevano tutte le volte che riprovavo a rialzarmi.
Mi portarono all'ospedale ma nemmeno lì seppero aiutarmi o, probabilmente, non vollero: erano “affari di famiglia”. Della mia. Quindi...


“Adesso so cosa accadrà”
Adesso, lo so cosa accadrà... Mia madre piangerà disperata davanti alla polizia e all'ambulanza prima, davanti a chi verrà a darle le condoglianze dopo; sembrerà affranta, disperata, sbalordita, dirà che non avrebbe mai potuto immaginare che proprio a lei sarebbe potuta accadere una cosa simile, proprio a lei...poverina! Lei che era così attenta e quel giorno non sa proprio come sia potuto succedere che io sfuggissi al suo controllo, io che ero sempre sotto le sue amorevoli mani...Piangerà, oh sì: piangerà per giorni per trovare quella compassione e quel conforto di cui ha sempre avuto bisogno ma non per essere confortata della mia perdita ma della sua vita, lei sarà la “protagonista”, lei sarà...la vittima. Tra qualche settimana però, smetterà di pensare a decorare la mia tomba e vorrà un altro bambino e lo avrà pure e io non lo invidio nemmeno un po'. La mamma avrà una buona dose di protagonismo e vittimismo e poi mi dimenticherà come si dimenticava di venirmi a riprendere all'asilo.
Mio padre, dal canto suo, si premurerà che tutto sembri “normale”, un incidente, andrà a prendere la polvere magica da dietro il water e assumerà l'aria del padre sofferente a cui è stata tolta la luce dei suoi occhi e non la persona in grado di far sborsare ai nonni qualche soldo in più. Papà addobberà la Chiesa e l'androne del palazzo con delle scritte di un insipido buonismo melenso solamente per far leggere agli altri un dolore che non conosce perché a lui, ormai, è estraneo ogni sentimento.
E i nonni... il nonno per un po' non parlerà, non verrà al funerale ma arriverà puntuale alla mia tomba ogni mattina e ogni sera col gelo e col caldo più appiccicoso; se ne starà lì a guardare la mia foto in cui io, come al solito, non sorrido ma guardo con aria imbronciata l'obiettivo. Non lo so se il nonno per mesi farà questo pellegrinaggio per scrupolo nei miei confronti o nei suoi e se piangerà non lo so se lo farà per la vergogna che sentirà pesare su di sé per l'accaduto o perché, invece, sentirà la mia mancanza.
La nonna all'inizio metterà su una sceneggiata napoletana, sembrerà vicina al crepacuore ma non creperà, perdonerà per l'ennesima volta suo figlio e quella sua schifosa vita balorda che le ha ucciso anche un nipote però questo non è importante, io non sono importante come suo figlio, la luce dei suoi occhi e lo scuserà, lo compatirà, tornerà ad aiutarlo in tutte le sue folli imprese, a giustificare la sua inettitudine e tutti i suoi sbagli, compresa sua moglie.
In Chiesa si è celebrato un funerale strano...non so...credo che quelli come me, i “probabili suicidi” non meritino una cerimonia come gli altri. Io non sono mai stato come gli altri eppure quel giorno, al funerale, la mia famiglia sembrava normale, con la mamma e il papà che si abbracciavano affranti, la nonna commossa e sconcertata: era come se nessuno di loro sentisse su di sé il minimo scrupolo, era come se nessuno di loro pensasse alla tristissima vita che avevo fatto, a tutti gli schiaffi di parole e di mani che mi avevano dato. Io ero... “il bambino strano”, malato, tutto il resto era normale, tutti erano vittime compatibili della mia follia. Già...
Al mio funerale ci saranno le maestre che piangeranno e loro piangeranno davvero per me e i miei compagnucci, con i fiorellini di carta fatti apposta da loro per me, se ne staranno lì confusi e frastornati e solo tra qualche anno, se ancora si ricorderanno di me, lasceranno cadere una lacrima facendosi tornare alla mente i confittini che portavo loro ogni giorno, il mio sorriso bucato, la mia camminata cicciona...
I parenti, i vicini, gli amici saranno quasi tutti seduti lì, a dirsi all'orecchio la verità, a difendere solo in un silenzio ipocrita la mia verità. Pochi saranno davvero commossi per me e siederanno in fondo, non daranno sfoggio della loro presenza e non avranno pena dei miei genitori, non li compatiranno ma li odieranno.
E nessuno indagherà, nessuno condannerà i miei perfetti genitori. Ma, d'altronde, non lo faccio nemmeno io che, a guardarli da qui, non posso certo dire di non volergli bene. 


sabato 8 agosto 2015

"E'..."

E’…

La vita è
il ritmo di una palla
che rimbalza nel vialetto,
la nenia
nell’abbaio
lontano
di un cane,
una rosa che volteggia
col venticello
nel sole ormai croccante.
La vita è il profumo avvolgente
del primo verde
e poi di quello bruciato
dai falò
e poi di quello umido, marrone
e poi di quello

ghiacciato.